Il silenzio, il vuoto interiore, la solitudine.
Forse è solo dopamina che manca, la droga naturale delle emozioni. Per trovare una via d’uscita o anche semplicemente una lettura del quadro, c’è questo diagramma che pretende di contenere tutte le differenti tipologie di personalità. Dicono sia di derivazione sufi, importato in Occidente da grandi maestri, l’ultimo dei quali è stato Claudio Naranjo, professore cileno che ha fatto della psicoterapia e della psichedelia la strada verso la guarigione di migliaia di anime. Non l’ho conosciuto personalmente, ma ho beneficiato dei suoi insegnamenti tramite uno dei miei maestri che fu suo diretto discepolo. Questo schema, l’ennegramma, sottende l’esistenza di nove tipi di personalità, chiamati carattere, che poi diventano ventisette dato che la questione si complica.
Non sono solo un numero!
Non mi ha mai sconfinferato molto, l’approccio che ho avuto è stato abbastanza traumatico: ad una cena con i miei compagni del corso di counselling un tipo mi disse di primo acchito “Io e te non andremo mai d’accordo, perché io sono un 7 e tu sei un 3“. Wait wait wait. A parte che io sono un 4, diamo i numeri davvero? Sono un individuo ricco di traumi e nevrosi e tu mi vuoi far ricadere in un’etichetta schematizzata e riduttiva solo per trovare dei paletti che ti sostengano riducendo l’ignoto ad un’immagine piatta e rassicurante? Non sono mai voluta entrare in quel club esclusivo in cui veramente più volte mi è capitato di sentir dire “ah, lui è un 6, quindi si comporta così e cosà”. Giudizi imperativi che rovesciavano il sistema: non più la psiche colorata che si manifesta, da dentro a fuori, ma un manto soffocante che cala sulla personalità. Da fuori a dentro. Spiego meglio.
Il nucleo della teoria
Secondo la teoria dell’enneagramma, nell’infanzia – oh, sorpresa! – viviamo dei traumi che forgiano il nostro carattere. Indossiamo quindi involontariamente e inconsciamente una maschera che recita al nostro posto. Effettivamente, ci sono degli schemi ricorsivi che possono essere assunti come una mappa. Per esempio, se un bimbo abbandonato a se stesso riceve l’attenzione dei genitori solo quando piange e soffre, imparerà che la sofferenza è ciò che lo fa vedere dal mondo. Imparerà che se soffre viene visto. Al contrario, il bimbo a cui la mamma sorride solo quando lui sorride, tenderà a diventare un seduttore che acchiappa tutti mostrando quanto è felice e sorridente.
Tutti siamo un poco tutto, tra sofferenza e sorrisi ma, secondo gli insegnamenti di Naranjo, nei momenti di maggiore stress e maggiore tensione, è una maschera in particolare che ci cala addosso, è un atteggiamento difensivo particolare, e sempre quello, che vestiamo. Ed è utile riconoscerlo, per poter dire “non sono io, è la maschera” e per provare a toglierla e riconoscere il vero volto che c’è sotto.
Da dove nasce il carattere
Per inciso, l’obiettivo è sempre solo uno: l’infante cerca di scoprire qual è il meccanismo che più lo può portare ad ottenere l’attenzione – l’amore! – dei genitori. Tutto, sempre, si riduce a quello: essere amati, essere presi. Trovare una casa all’inquietudine interiore.
In questo specifico senso, il mio racconto può dare un’ulteriore chiave di lettura: il mio carattere è quello legato alla sofferenza (numero 4). Effettivamente da piccina ritenevo che solo chi soffre e comprende il vero dramma esistenziale può ritenersi vivo. Chi ride e si diverte non ha capito quanto profonda può essere la vita. Lo struggimento e la lacerazione interiore sono la vera essenza. Sì, terribile, uno scivolo verso la depressione. Talvolta mi capita ancora oggi, a quasi cinquant’anni, di ritorcermi nei film mentali catastrofici di me misera me tapina, calamita delle calamità sentimentali, eroina di un romanzo di Flaubert.
Per fortuna anni ed anni di esercizi sulla presenza mi permettono di riconoscere il meccanismo automatico e stopparlo immediatamente. La realtà è quella che è, io la ammanto di tragedia perché nella tragedia mi sento speciale e privilegiata per poter vivere cotanta intensità. I meccanismi del carattere del funzionamento del cervello sono strani ma anche molto semplici. Percorriamo la strada che conosciamo (ho approfondito il discorso qui). Anche i nostri percorsi elettrici mentali, le strade che collegano i neuroni, si attivano laddove c’è minor resistenza, la strada sempre percorsa è quella che ha i solchi presegnati. Come dei binari. Il treno che li percorrre è però destinato a schiantarsi: tutti questi abiti caratteriali sono una difesa nei conotronti della sofferenza reale. Una corazza che impedisce di affrontare e curare il vero dolore.
Alcuni esempi
Sono due le maschere più diffuse oggidì, socialmente accettate se non incentivate, ed entrambe nascondono il loro psicodramma, perché sono tremendamente piacevoli. Ci sono molti alieni tra noi, i perfezionisti vestiti tutti in tinta, sempre adeguati e al massimo della performanza. Quelli che hanno imparato che più sono belli e bravi più piacciono. Quelli che non possono sbagliare, quelli che hanno successo sociale, imprenditoriale, iperattivi e controllati, controllanti e controllori. Là sotto c’è il disastro di doversi mostrare sempre all’altezza e dare all’altro sempre ciò che desidera, per poter – ancora – essere amati. Risultati eccellenti raggiunti non dalla spinta dell’anima e dalla necessità di essere sé stessi e autorealizzarsi, ma il bisogno di piacere. C’è in tutti noi la spinta all’appartenenza, è chiaro, ma per taluni è questione di sopravvivenza. Perché un infante da solo soccombe, ha bisogno dei genitori. Ma se obbedisce all’ordine fai il bravo, tutto sarà perfetto. Apparentemente. Rinunciando alle sue spinte interiore emotive ottiene forse l’amore dei genitori, ma rinuncia ad una parte di sé. E quel pezzettino finirà nascosto, finirà schiacciato e non visto. E da quella parte oscura, inconscia, saboterà pessantemente la vita dell’individuo per farsi notare e farsi rinoscere e reintegrare nella personalità. Tutta la rabbia del bibmo che vorrebbe uralre ma deve fare il bravo diventerà una bomba ad orologeria che nella fase adulta scoppierà mietendo vittime (questo è, per curiosità, il numero 3).
E poi c’è il goloso. Lussurioso. Che non ne ha mai abbastanza. Che brama l’intensità. Che non sente. Che per sentire ha bisogno di rumore a volume sempre più alto. Che non si pasce della contemplazione dell’esistenza, ma che ne vuole di più, sempre di più. Più cibo, più intensità, più adrenalina, più tutto. Procrastinatore nato, perché il piacere viene sempre prima del dovere, perché la fatica è nemica. Anche questo carattere, il mattaore piacione che tutti amano, ha una sua origine in famiglia, e statisticamente è il bimbo con il padre assente e la mamma soffocante. Troppo amore, troppo dolore, graffiato dalle sbarre della gabbia dorata. Un dolore così forte da dover chiudere i sensi. Quindi solo l’intensità li riesce a raggiungere e stimolare. Raccolgono a man bassa tutto ciò che trovano, cercano costantemente di riempire il vuoto lasciato da quel pezzettino di sé che hanno perduto (il numero 7).
Dietro la maschera…
Ecco, questi siamo noi, i nostri drammi. Dei nuclei di dolore, delle palline di antimateria esplosiva che però non sono tutto. Sono avvolte dalla nostra storia, dalla storia di ogni persona. Sono dei segreti da svelare, ma ogni velo che li ricopre è una storia da raccontare, è un filamento di esistenza che si materializza, un pezzettino di Spirito che sperimenta se stesso. Non riduciamolo ad un solo numero per poterlo maneggiare facendoci meno male!
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